Rifiuti di marca, ossia quando lo scarto rinasce come prodotto.
Nonostante le molte campagne di riduzione, riutilizzo e riciclo, il volume totale dei rifiuti solidi prodotti annualmente in tutte le aree urbane europee dovrebbe aumentare entro il 2020 di un ulteriore 45% così da raggiungere la cifra record di 4,4 miliardi di tonnellate. Rifiuti solidi di cui meno della metà viene raccolta e smaltita se confrontiamo i dati con quelli anche di altri paesi extra-europei. Ma non solo, squilibrata è inoltre la percentuale con cui tali rifiuti vengono creati in tutto il mondo: dal Nord America che, con appena il 5% della popolazione mondiale, produce il 30% dei rifiuti del Mondo, all’Africa che invece con il 13% delle persone, è responsabile solo del 3% dei rifiuti solidi urbani mondiali. Ad oggi la gestione dei rifiuti solidi urbani (RSU) è attualmente valutata a livello mondiale a oltre 300 miliardi di dollari di entrate e sta crescendo rapidamente. Il mercato si è evoluto, anche se quasi nessuno offre ancora l’intero spettro, tra cui compostaggio, riciclaggio, incenerimento, trattamento biologico e/o gassificazione: ogni fornitore sembra offrire, infatti, soluzioni uniche. Il riciclaggio di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche sembra, secondo le riviste del settore, oggi l’unico che funzioni, essendo applicato nel 93,2% dei casi mentre lo smaltimento dei rifiuti biologici rappresenta invece appena il 6,8%. Una situazione questa che non solo non potrà durare a lungo ma che necessità un continuo ripensamento e presa di coscienza da parte di tutti noi affinché il problema dei rifiuti smetta di essere un problema e diventi invece un’opportunità. E di opportunità già se ne vedono molte.
Ne è un esempio l’americana “TerraCycle” che lavorando con più di 45.000 tra scuole, aziende, gruppi civici e palestre in America, raccoglie vari tipi di rifiuti e crea prodotti e materiali che sostituiscono altri prodotti realizzati con materiali vergini. Un modello di business che va oltre il semplice riciclo e la creazione di prodotti di valore a partire dai rifiuti: si crea qui un brand di valore con i rifiuti utilizzando gli stessi con un marchio. Nascono così prodotti che raccontano al consumatore chi è stato l’ideatore delle materie prime da cui viene il prodotto finale. Ad esempio i sacchetti di succhi di frutta di Capri Sun vengono trasformati in sacchetti per la tote bag; i sacchetti di trucioli usati di Frito Lay vengono riciclati in lattine per la spazzatura e raffreddatori per bevande. Il rifiuto assume così nuova vita sotto forma di prodotto di marca. Sviluppate da scarti alimentari e plastica, si stanno diffondendo anche nella moda le fibre ecologiche. Innovazione e ricerca hanno così permesso di sviluppare e introdurre sul mercato tessuti “green” come, ad esempio, il “Bionic Yarn”: ecologico e resistente, lanciato nel 2009 ed utilizzato anche dai grandi marchi della moda per creare capi denim, tute e borse. Creato da due giovani di New York il tessuto di plastica riciclata nasce grazie all’utilizzo di bottiglie di plastica che vengono prima raccolte, poi fuse insieme ed, infine, divise in fibre creando quello che viene chiamato “Yarn-core” che in seguito viene distribuito in due tipologie: una di questa crea un filato morbido ed elegante grazie all’unione della plastica riciclata con fibre sintetiche o tessili naturali; l’altra composta di sola plastica riciclata, scaldata e filata insieme. Filati, oltre che dalla plastica, nascono anche dagli scarti alimentari, come nel caso di “Orange Fiber” un filato nato dagli agrumi da cui, nel processo di produzione, viene estratta la cellulosa (da ciò che rimane delle arance utilizzate per produrre succhi e profumi per ambienti) ed in seguito trasformata in filo per creare abiti. Dal 2014, anno di nascita dell’azienda, sono nati così speciali tessuti composti da acetato di agrumi siciliani e seta che offrono un modo tutto nuovo di smaltire quegli scarti vegetali che invece spesso vanno buttati. Non solo agrumi comunque ma anche soia distillata e raffinata che viene estratta sotto forma di liquido nel caso della “Soybean Protein Fiber”, una fibra tessile derivante dalla soia post-oliatura. Un liquido che, sottoposto a polimerazzazione, modifica la sua struttura e viene in seguito cotto per produrre filato creando un materiale che viene in seguito tagliato e termoformato. Gli scarti che derivano dalla produzione della fibra vengono utilizzati poi come mangime, mentre il tessuto ottenuto risulta morbido, permeabile all’aria e all’umidità. Nasce invece dal mais la “Corn Fiber”, un materiale ecologico ottenuto tramite alcune lavorazioni di mais, amidi e legumi che porta alla formazione di un acido poliattico ossia un polimero in grado di essere utilizzato per la creazione di tessuti resistenti all’umidità, al calore e con un alto grado di traspirabilità. Ma sopratutto per la sua particolare capacità di isolante finisce per essere utilizzato in campo edile, nei cappotti, negli intercapedini interni e nei solai.
Processi differenti che puntano però allo stesso obiettivo ossia quello di rendere il rifiuto, ed in questi casi si parla proprio di quei rifiuti biologici che così poco vengono oggi riciclati, un’opportunità, trasformandolo attraverso ricerca ed innovazione, e grazie anche ad una nuova consapevolezza ecologica, in prodotti nuovi ed unici pronti ad essere commercializzati. Del rifiuto biologico, dopotutto, nulla si butta.