Nimby e Nimto bloccano lo sviluppo sostenibile, e l’Italia rimane immobil
L’acronimo Nimby (“Not in my back yard”, ossia “non nel mio cortile”), viene utilizzato oggi per descrivere il rifiuto da parte delle comunità locali verso nuove infrastrutture, impianti o mutamenti sociali in un determinato territorio.
Ci si riferisce in questo modo ad un fenomeno attuale ed estremamente ampio, connesso alla difesa di interessi specifici (che possono essere economici, politici, e personali) consolidati contro un interesse generale, che finisce per assumere i connotati di una battaglia ideologica o politica. Politica che oggi è anche uno dei primi attori dinamici di questo fenomeno, non a caso l’altro termine utilizzato è quello di Nimto (“Not in my terms of office” ossia “non durante il mio mandato elettorale”). Un atteggiamento che si può facilmente definire “di comodo” scelto dai governi per non correre rischi. A bloccare la realizzazione di opere infrastrutturali a volte è, quindi, la stessa politica che in situazioni spinose, per non perdere consenso elettorale, preferisce non legiferare.
Due termini inglesi per un fenomeno molto italiano, come “due facce della stessa moneta, correlate l’una all’altra” come ha spiegato anche Alessandro Beulcke, presidente del Nimby Forum. Questa associazione, attraverso l’Osservatorio media permanente, registra tutte le contestazioni che avvengono contro opere di pubblica utilità ed insediamenti industriali in Italia; un lavoro svolto da tredici anni e che nell’ultimo anno preso in esame, il 2017, ha raggiunto il numero più basso di sempre: solo 80 i casi censiti (-31,6% rispetto ai 119 nuovi focolai apparsi nel 2016), che arrivano a 317 contando quelli storici (contro i 359 censiti nel 2016, -11,7%). Ma non si tratta di una buona notizia, anzi. Non ci si lamenta di meno, infatti, perché le opere vengono accettate di più, ci si lamenta di meno semplicemente perché sono molte meno le opere che oggi in Italia vengono messe in cantiere. Finiamo in questo modo ad essere immagine di un Paese profondamente bloccato ed incapace di seguire uno sviluppo più sostenibile. Le imprese dinanzi a un quadro normativo incerto ed a una politica spesso irresponsabile, che preferisce giocare con il consenso anziché governare il territorio, preferiscono così investire altrove. Anche così si spiega l’ingente emorragia di capitali e la fuga di investimenti privati. L’atteggiamento irresponsabile di una classe politica che non ha colore si manifesta quando le amministrazioni locali, invece di accogliere le nuove proposte per studiarle e valutarne la validità si oppongono a priori, consolidando il proprio consenso sociale facendo leva su antiche paure, non sempre fondate. I dati mostrano, infatti, che nella maggioranza assoluta dei casi (51,6%) sono proprio enti pubblici e politica – forti rispettivamente del 26,3% e 25,4% delle contestazioni – a opporsi a impianti e opere pubbliche, seguiti dalla matrice popolare (comitati, etc) con il 34,6% e associazioni ambientaliste (9,6%). Ad aumentare, poi, una certa diffidenza, se non anche una sfiducia totale, nei confronti della politica e delle imprese attive in questo settore ci sono purtroppo anche i frequenti casi di illegalità ed i più recenti episodi di cronaca che hanno riempito i nostri media negli ultimi anni. E così la sindrome Nimby finisce per diventare quasi “istituzionale”. Vale in particolare per alcuni temi ambientali sensibili: trivelle e rifiuti in particolare. Vale per le norme 'end of waste', per gli impianti, per le attività petrolifere offshore.
Nella XIII edizione dell’Osservatorio Nimby Forum, svoltosi a Roma nelle scorse settimane, partendo dal monitoraggio di oltre 1.000 testate, si è mostrato che il comparto industriale più contestato risulta essere quello energetico con il 57,4%, con le opposizioni orientate in maniera preponderante verso gli impianti da fonti rinnovabili (55 quelli contestati, il 73,3% sul totale del comparto); seguono il settore dei rifiuti (35,9%) e il comparto infrastrutturale (5,9%). Numeri che restituiscono ancora una volta l’immagine di un Italia immersa nelle contraddizioni e divisa tra il sostegno in politiche green, diffuso tra gli opinion leader, e le reazioni “Nimby” riservate a questi progetti su territorio per un Paese che risulta agli ultimi posti al mondo per investimenti in energie rinnovabili, con un calo che ha fatto registrare il -60% solo nel ramo dell’eolico e del fotovoltaico. Mentre, invece, come ha denunciato lo stesso Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente durante il convegno: “Per arrivare a rifiuti zero in discarica o negli inceneritori serve realizzare mille impianti di riciclo e riuso. Non c’è altra soluzione”.
Ma perché avviene tutto questo? Principalmente perché, a mio avviso, esiste una distanza troppo grande ormai tra le classi dirigenti e le istanze popolari. Non è un caso, infatti, che anche le analisi del Nimby Forum sottolineino l’importanza, in termini di accettabilità sociale dei progetti proposti, di un’informazione preventiva e trasparente da parte dei soggetti proponenti, unita al coinvolgimento del territorio a partire dalle prime fasi di progettazione. Una politica seria dovrebbe poi rassicurare la cittadinanza su tutte le verifiche che dovranno essere fatte sul tale progetto, progetto che viene messo in cantiere, infatti, solamente quando riesce ad ottenere tutte le adeguate e preventive autorizzazioni. Il grande assente, in queste dinamiche, è proprio il dialogo con gli enti locali, con i comitati e le associazioni civiche, con le organizzazioni ambientaliste, sia da parte delle aziende, sia da parte dei soggetti istituzionali. Esiste in sintesi un grandissimo problema di comunicazione che ha portato oggi ad una deriva anti-industrialista il nostro Paese.